Il tempo e la sua gestione è uno dei costrutti su cui gli approcci terapeutici si interrogano più frequentemente; quanto debba durare un percorso terapeutico, come affrontare il passato e il presente delle persone in terapia, è parte di un annoso dibattito fatto di domande aperte, che non sembra avere fine.
L’unica cosa di cui siamo sicuri è che esiste un costrutto temporale che chiamiamo passato, attraverso cui ricordiamo che cosa siamo stati, un costrutto temporale che chiamiamo presente, attraverso cui descriviamo la nostra esperienza nel qui ed ora ed infine un ultimo costrutto temporale che chiamiamo futuro, attraverso cui ci proiettiamo a quello che saremo.
Un prima, un adesso ed un dopo.
Questa sicurezza, che ha improntato ed impronta la pratica professionale di intere generazioni di psicoterapeuti, è sbagliata, si tratta di una costruzione mentale che ci serve per affrontare l’angoscia dell’esistere, la stessa emozione che probabilmente si lega al suicidio di colui che comprese questo meccanismo, uno dei tanti suicidi che hanno visto come protagonisti mente geniali e visionarie, quella di Ludwig Bolzman, un paffuto fisico austriaco, sopranominato dalla sua ragazza <<dolce e caro ciccione>>.[0]*
Bolzman sosteneva che la differenza tra passato e futuro si riferisce alla nostra visione sfocata, è un abbaglio e una miopia, perché nelle leggi fisiche che governano il mondo non c’è distinzione tra causa ed effetto, non esiste un passato che determina il presente ed influisce sul futuro: distinguiamo passato e futuro perché osserviamo con occhiali grossolani e sfocati.
L’origine fisica della differenza tra passato e futuro sta’ dentro il disordinarsi naturale delle cose, è la naturale entropia (espresso in maniera sintetica per problemi di spazio,): “Se osservo lo stato microscopico delle cose, la differenza tra passato e futuro scompare. Il futuro del mondo, per esempio, è determinato dallo stato presente, né più né meno di come lo sia il passato. (pag. 36)”.
Il tempo per esempio non scorre in maniera uniforme ovunque: in basso tutto scorre più lentamente che in alto e di conseguenza una seduta di psicoterapia in pianura costa di più che in montagna!.
Noi cediamo spesso alla comune “tentazione della sicurezza”: è il nostro essere propensi a vivere in un mondo di solidità percettiva priva di dubbi, in cui le nostre convinzioni ci portano a credere che le cose sono così come le vediamo, senza alcuna visione alternativa.
La tradizione strategica invece, costruttivista come orientamento epistemologico, ha fatto propria questa maniera rivoluzionaria di pensare al tempo, cogliendone la sua natura potentemente liberatoria: qualsiasi configurazione è possibile in una realtà che è costruita dal soggetto.
H. von Foerster, ad esempio, sostiene che “Quel costrutto concettuale che chiamiamo tempo è……semplicemente un prodotto secondario della nostra memoria la quale in certi casi, può usare “il tempo” come un utile parametro per indicare la sincronicità, o meno, tra due o più sequenze spazialmente distinte”.[1]**
Questa nuova ottica impone di non concepire il conoscere come la rappresentazione oggettiva del modo “la fuori”, ma come una continua attività di produzione, in cui è possibile anche che il futuro determini il passato e viceversa.
La definizione del tempo in terapia, quindi, più che avere a che fare con protocolli rigidi, deve riguardare la percezione condivisa da parte del terapeuta e della persona che richiede aiuto: il tempo è conversazionale, è un metalogo.
La prossima volta che una persona in terapia vi chiederà: “Dottore, quanto dura?” potrete tranquillamente rispondere: ∆S≥0[2]***
Dott. Andrea Stramaccioni – Psicologo, Psicoterapeuta
[0] * Rovelli C. (2017), L’ordine del tempo, Adelphi Editore, Milano;
[1] ** Von Foerster H. (1987), Sistemi che osservano, Astrolabio Editore, Milano;
[2] *** ∆S≥0 è l’equazione studiata da Bolzman ed incisa sulla sua tomba.